I giardini, ormai diroccati, che si trovano sopra la volta delle gallerie dimesse della tangenziale, hanno da sempre attirato la mia attenzione e così, cercando notizie su quella che io avevo sempre conosciuto come Villa Zadra, trovai che in precedenza era stata Villa Graffer ma non c’erano notizie certe sui giardini che si trovano a monte, verso il Doss Trento.

E’ stato così che ho avuto il piacere di conoscere alcuni componenti della famiglia Graffer ed avere da loro la conferma che la Villa è stata costruita agli inizi del 1900 dal signor Giovanni Graffer e che i giardini chiamati “ LE POSTERE”, ci sono sempre stati.

La signora Emma Graffer ormai centenaria, è infatti nata nel 1909, è stata la prima a nascere nella villa, i suoi ricordi ultimamente sono purtroppo un po’ sbiaditi ma ricorda che “ erano passeggiate neoromantiche che arrivavano fino a Piedicastello ed erano a quattro livelli con coltivazioni di verdure ed orti, con pochi alberi e gli archi servivano da guarnizioni”.

Durante la prima guerra mondiale la casa fu comando austriaco. I Graffer, essendo macellai, avevano avuto il “privilegio” di non essere deportati a Katzenau, in quanto di supporto al comando austriaco.

La casa era stata requisita come base logistica del comando e vi vivevano gli ufficiali . All’ultimo piano della villa vi erano le radio trasmittenti. I soldati aiutavano al mantenimento ed alla costruzione delle postere come operai, anche per mantenere gli orti per la verdura.

A seguito dell’incontro con la signora Emma, ho incontrato la signora Francesca Moggioli Graffer che, mi ha confermato i ricordi relativi ai giardini, documentati anche da alcune vecchie fotografie ma, fonte determinante e stata il sapere dell’esistenza di un libro: – “Ricordi d’infanzia e lettere”- scritto da Nino Graffer, nel quale egli racconta con esattezza come e da chi furono pensate le “postere”. Nino Graffer nel suo libro infatti dice:”Mio padre ha detto al Gigi che voleva fare qualche cosa sul Doss Trento, lì a mezzogiorno, su dei ripiani che noi chiamavamo le postere. E sempre parlava mio padre col Gigi di questi lavori. Disegnava archi e poggioli, e costruzioni con merli in cima, e viali, qualche cosa di bello disegnava.

Poi hanno cominciato a lavorare.

Prima hanno fatto gli scavi e poi cominciato a costruire. Ma portare la roba fin lassù era troppo faticoso. Allora hanno impiantato una funivia. Hanno cominciato col piantare in cima quattro legni dove questa funivia doveva arrivare e, attraverso a questi quattro legni, a tre quarti di altezza, fissarono un altro legno. Chiamavano questa costruzione “la caora”. Poi tesero delle corde che arrivavano fino in basso e, in cima, misero un argano. Si faceva girare una manovella e un vagone saliva e uno scendeva. Questi, che chiamavamo vagoncini, erano come delle casse fatte con assi molto robuste, attaccate con delle corde a due carrucole che scorrevano sulla corda portante.

Cinquanta mattoni alla volta portavano questi vagoncini, e in un momento erano in cima. Qualche volta si rompeva una corda, allora bisognava aggiustare la funicolare. Gli uomini erano molto rabbiosi quando si rompeva qualche corda. …”

Non solo, nel libro si può leggere uno spaccato molto realistico della vita che si conduceva nei primi decenni del novecento a Piedicastello. Anche allora si festeggiava S:Apollinare e Nino Graffer così racconta nei suoi ricordi: – “Era S.Apollinare e ci sarebbe stato anche l’albero della cuccagna. L’anno avanti lo avevamo visto per la prima volta, ma quest’.anno ci saremmo arrampicati sull’albero della cuccagna. Avevo sette anni e mio fratello cinque. Molto ci eravamo allenati su un palo del telegrafo di fronte a casa nostra. Eravamo proprio sicuri di far bene.

La mattina lo prepararono, l’albero della cuccagna. Era liscio e lungo. Due uomini lo spalmavano con una miscela di olio di ricino e sapone, che tenevano in un secchio. Tutti assistevano a questa operazione, tutti i concorrenti. C’era anche il Brigolin, che aveva dieci anni e l’anno avanti era salito fino in cima, aveva strappato la bandiera e buttata in piazza. Il più bravo di tutti era il Brigolin. Poi siamo andati a casa a desinare, ma non parlavamo. Pensavamo solo all’albero della cuccagna. Alle tre si doveva salire. Alle due e mezzo si era in piazza. L’albero era piantato. Sotto c’era molta paglia e, tese, quattro corde perché non entrasse la gente. Poi c’era un tavolino e un quaderno e un signore che notava i nostri nomi.

Tutti c’eravamo, quattordici, ma nessuno parlava e solo ci si guardava. Eravamo già pronti e tutti scalzi. Due volte bisognava salire sull’albero. Quello che saliva primo la prima volta, la seconda sarebbe stato l’ultimo. Avevamo le tasche piene di cenere. Certi portavano della terra perché dicevano che attaccava di più. Noi pensavamo che la cenere tenesse meglio. Se ne buttava una manciata sull’albero e poi ci si teneva. Così bisognava fare. Un signore ha gridato i nostri nomi. C’era la piazza piena di gente, ma non la vedevamo. Solo l’albero della cuccagna vedevamo. Aveva due strisce rosse, una a metà e una quasi in cima, e in cima tre cerchi con attaccate delle bottiglie e dei salami. In cima del tutto era piantata la bandiera gialla e celeste, quella che il Brigolin aveva preso e buttato in piazza. E il Brigolin era lì anche quest’anno, ma forse sarei arrivato io a strappare la bandiera. Poi il primo è partito. E’ andato su un poco perché l’albero era molto insaponato. Nello scendere ha stretto molto le gambe e, quando è arrivato a terra, aveva due pezzi come di pasta attaccati ai calzoni. Dopo sono saliti gli altri, ma scendendo stringevano poco con le gambe e noi gridavamo : – Stringi, butta la terra -. Ce n’era uno solo ancora davanti a me e io non gridavo più, solo aspettavo. – Nino Graffer – chiamo il signore. Allora subito sono corso all’albero e cominciato ad arrampicarmi in fretta. Facile era e – Bravo – mi gridavano dalla piazza. Un momento ho anche guardato per vedere la gente, ma era come una massa nera. Io pensavo che fosse molto più importante la gente, invece era solo l’albero che mi interessava. L’albero però è diventato subito faticoso, molto faticoso. Ho passato la prima fascia e lì mi sono fermato un poco. Ho preso della cenere e sfregata contro il palo. – Avanti, gridavano. Forza – ma non me ne importava niente. Lo sapevo anch’io che bisognava andare avanti, e ogni sforzo facevo per andare avanti, e sono salito anche un poco, fino quasi alla seconda fascia. Ma dopo non avevo più forza e, invece di salire, scivolavo giù. Non avevo più forza per tenermi, per quanto facessi. Allora

sono sceso. La seconda volta sarebbe andata meglio. Poi è andato su mio fratello, che era il più piccolo di tutti, e la gente gridava moltissimo. Piano bisognava andare, piano in principio. Non stancarsi subito, così bisognava fare. E mio fratello è arrivato alto quasi quanto me. Alla seconda prova mi sentivo sicuro. Non sono corso verso l’albero, piano sono andato. Ma sono stato subito stanco. Basta. Non ero più capace di andare avanti. E mio fratello aveva toccato la seconda striscia e – Bravo Graferot – gridavano dalla piazza, e a me solo – Forza – . Allora ho visto che era inutile.

Bisognava però fare qualcosa. Mi sono tenuto stretto con le gambe, ho mollato l’albero con le braccia, ho buttato la testa indietro e mi sono lasciato scivolare con la testa in giù. – Bravo – gridavano – Bene.

Ho ricevuto due salami e mio fratello una bottiglia con tre liquori, uno bianco, uno rosso e uno verde.”

Nino Graffer nel suo libro racconta di essere nato il 6 novembre 1903 e dice: “ Eravamo in sette, cinque fratelli e due sorelle. Io ero il maggiore. Finite le scuole, la mamma ci dava un paio di pantaloncini di tela ed una maglietta senza maniche. Andavamo quasi sempre scalzi. Ci divertivamo nuotando nell’Adige o in piccoli bacini che erano lunghi 10 – 15 metri, larghi circa 4 – 5 e profondi poco più di 1 metro. Ora non ci sono più. Sono stati riempiti di materiale. In questi bacini, che noi chiamavamo laghetti, c’erano molti gamberi che pescavamo, cucinavamo, bollendoli nell’acqua contenuta in qualche barattolo, e poi mangiavamo. Arrampicavamo sul Doss Trento, tiravamo a segno con archi e frecce che costruivamo noi e giocavamo come fanno tutti i ragazzi. Appartenevo ad una famiglia benestante, ma allora si viveva

così” ed ancora “ …i miei compagni di scuola non mi piacevano. Non mi volevano bene. Non mi erano amici. Non erano come i miei compagni di Piedicastello, come il Giulietto Eghenter, o il Marcello Scoz, o il Furlani. Quelli erano compagni che, se si diceva: – Andiamo a rubare le ciliegie – subito venivano.

E, se li prendevano, non dicevano – C’era anche il Graffer – , ma tacevano anche se ricevevano qualche scapaccione. Se c’era da suonare qualche campanello o da spaccare qualche lastra subito ci stavano.”

E poi tanti e tanti altri ricordi …

 

A cura di
Laura Postinghel Tomasi Piedicastello, luglio 2010