PIEDICASTELLO E LA CITTA’
Tratto da: Aldo GORFER, “Terra mia”, Trento, Ed. Saturnia, 1981

Foto e testi elaborati da:
Gianfranco Bernardinatti e Laura Postinghel

Gorfer Aldo, Piedicastello e la città, da “Terra mia”, 1981(pdf)  –  (Versione PowerPont)

 

Gli ultimi barcaioli di Piedicastello (uno degli antichi borghi di Trento dalla quale è separato dall’Adige, gli altri borghi erano: San Martino a nord e Santa Croce a sud), furono quei robusti giovanotti che traghettarono la gente da una sponda all’altra dell’Adige nel tristissimo periodo della passata guerra aperto dall’inatteso bombardamento alleato del 2 settembre 1943.

Coloro che vissero quella lontana giornata di passione hanno negli occhi e negli orecchi il fumo e le esplosioni, l’argenteo luccicare degli aerei di contro il cielo azzurro della tarda estate trentina, l’urlo dei feriti e l’angoscioso richiamo di chi annaspava fra le macerie alla ricerca di propri cari, l’incredibile visione della rovina tra Santa Maria e l’Adige.

Ponte San Lorenzo bombardato fotografia del 1944 - foto fam.Postinghel

Il vecchio ponte di ferro era piegato e contorto. Inservibile. La morte colse quanti stavano tentando di attraversarlo nel miraggio di trovare scampo a Piedicastello.

Da allora, per quasi due anni, diciassette volte la città fu bombardata (senza contare le ossessionanti scorribande notturne del famigerato “Pippo”). Il bilancio è di circa 400 morti, 800 case distrutte e 1.000 danneggiate.

Durante quei ventun mesi, che sembrava non dovessero finire mai, e fino alla costruzione del ponte di cemento e di pietra, avvenuta nel 1949, il traghetto di Piedicastello faceva la spola tra le due rive.

Era composto da una piattaforma, bastevolmente ampia da accogliervi carri ed automobili, poggiata su due barconi paralleli. Un doppio parapetto era posto trasversalmente a poppa ed a prua. Una baracca di legno con il tetto a due spioventi completava sul ponte di poppa

l’armamento. Il traghetto era assicurato ad un cavo teso tra S.Apollinare e San Lorenzo. Il nocchiero teneva la rotta con un lungo remo affogato in acqua. Di norma il barcone attraccava con sufficiente precisione ai rustici moli di legno ricavati sulla sponda.

Il traghetto di Piedicastello era gestito da una specie di cooperativa, proprio come ai tempi delle associazioni nautiche trentine.

Zatteri fotografie anno 1944 – Immagini della fam.Cainelli - Foto. Vito Girardi Trento

Le associazioni nautiche davano decoro alle attività urbane collegate alla presenza del fiume, quali i nocchieri delle barche da carico o i “radaroli” delle zattere per il legname.

Poi anche il traghetto di Piedicastello e gli ultimi marinai d’acqua dolce rientrarono nelle pieghe della storia. La tumultuosa ricostruzione del dopoguerra era iniziata. Il paesaggio urbano si stava modificando irreversibilmente assieme al costume degli uomini.

Traghetto e barcaioli furono una tipica espressione del borgo che è città e paese assieme e che della città è, da sempre, un’appendice ed un preludio.

Il rione seppe conservare la caratteristica di aggregato alle porte della città che della città vive ma che dalla città vuole conservare l’indipendenza. Per tale verso, Piedicastello è l’estremo angolo strettamente trentino-popolare-operaio sopravvissuto al livellamento del dopoguerra.

Piedicastello ha resistito, fin che ha potuto, alle violenze della città. Non si è isolato. Ha cercato di rimanere se stesso, di rinvigorire l’istinto della comunità e la saggezza del popolo, il che è libertà ed inventiva. Le vecchie case addossate a semicerchio al Doss Trento non presentano portali blasonati. Soltanto il decoro di rare date piuttosto borghesi e recenti, ottocentesche. Sono l’indice di una ricostruzione avvenuta dopo il regime napoleonico e prima della deviazione del fiume.

Piazza Piedicastello fotografia 1800 - 1900

La navigazione sull’Adige era decaduta; ma le famiglie degli zatterieri non mollavano. Di padre in figlio per consolidata tradizione. Come i loro colleghi del borgo di San Martino avevano un linguaggio furbesco per comprendersi tra di loro e non farsi comprendere dagli altri. Secondo tale gergo, l’Adige era “l’prà”. Dalle tipiche chiatte atesine, tarchiate e ben armate come si può vedere nelle stampe antiche, i pescatori “pedecasteloti” immergevano le reti nel fiume e rifornivano di pesce fresco la città.

Zatterieri e pescatori avevano la casa comune che era contrassegnata da un delfino scolpito sul concio di chiave del portale di pietra. Era la cosiddetta “casota dei miracoi”. Si trovava sotto le rupi marnose di Mirabel. E’ scomparsa con la costruzione della fabbrica di cemento.

L’Adige la lambiva. Era sinuoso e gonfio.

I campi giungevano alla doppia fascia del bosco che ne accompagnava il corso. I muri della “casota dei miracoi” erano tappezzate di lapidi, di ex-voto, di ricordi marinareschi. Erano le umili offerte alla “Madonna degli zatterieri” che i marinari del fiume esponevano ad adempimento di voti contratti in momenti di navigazione procellosa.

——————–> Capitello della Madonna sito in via Papiria

Ph. Gianfranco Bernardinatti

In fondo a Via Papiria, là dove le case operaie s’arrestano al cospetto degli alti muri del cementificio, in una nicchia c’è la statua della Madonna Addolorata. E’ detta la “Madonna degli zatterieri” forse a ricordo dei nocchieri di Piedicastello. Una lampada brucia notte e

giorno. La scritta nella pietra vicina è il segno di tempi che sembrano affondati nella preistoria e che invece sono di 150 anni fa:

“Sulle piaghe del tuo figlio
Sugli affanni del tuo cor
Fa che sempre il nostro ciglio
D’amor pianga e di dolor …
Vi prego o madre pia
A benedir dal ciel l’anima mia …”

L’ingenuità fiduciosa della rima è giaculatoria e gusto del memento. Si ricollega al fresco gusto popolare delle superstiti lapidi del cimitero abbandonato sul sagrato di S.Apollinare cinto dal muro. Tra di esse c’è quella del pio monaco medievale, quella del “negoziante onesto” della fine dello scorso secolo e quella di Stefano Scenico detto Ognibene morto nel 1833 che invoca una preghiera del viandante:

“Un requie sol
Un sol pensier d’affetto
Dona a quest’alma
O passegger diletto
Se per gli estinti
Nutri amor verace
Io pur dal ciel
V’impetrerò la pace.”

Piedicastello era anche questo pregare ed aiutarsi assieme oltre che tramite, geografico ed umano, tra campagna e città.Il quadro fisico dei luoghi era attinente. La fontanella di pietra sulla piazza con i platani lungo la strada ed il tiglio; i vicoletti che escono dalle case; le case della fine del secolo costruite quasi sull’alveo del fiume; i massicci parapetti di calcare rosso che il podestà Mario Scotoni fece portare dal ponte dei Vodi per adornare la strada del buco di vela e per delimitare la piazza dove si giocava a tamburello ed a palloncina; i portali interrati dalle piene del fiume; la chiesa, la bellissima chiesa di S.Apollinare, che si rispecchiava nel fiume.

Qualche cosa del volto di Piedicastello è fortunosamente rimasto. Più in su, dove la piazza finisce e la strada affronta il monte, c’è la vecchia osteria della Nani con il fazzoletto di giardino, ombreggiato dalla vigna: i vecchi vi convenivano per delle gran sedute; più in su ancora, c’è il caseggiato della ex fabbrica di birra Luigi Frizzi, poi diventato bar al Cròz.

Scriveva il cronista ottocentesco:
“Oltre d’apparecchiare una bibita prediletta dai Trentini durante l’estate (la fabbrica), ha il vantaggio d’esser posta in deliziosa situazione dove l’occhio si ricrea completando la prospettiva della città e dei colli”.

Paesaggio e birra sono spariti.

———————->case abbattute a Piedicastello febbraio 1973 – foto C.Menestrina

Piedicastello è stato ingabbiato tra l’autostrada e la circonvallazione urbana. Gli spazi sono stati dilapidati dal cemento, dall’asfalto, dall’acciaio. Non c’è stato rispetto e nemmeno non c’è stata pietà. La circonvallazione ha spezzato in tronconi il borgo.

———————–>Panoramica aerea del rione di Piedicastello – Ph. AgF Bernardinatti Foto

La chiesa è diventata isola. E così la scuola materna, le scuole elementari, le case operaie. La scuola elementare è stata schiacciata tra la strada sopraelevata ed il cementificio. I pedoni sono costretti in labirinti razionalizzati. Più oltre, il paesaggio è una disperata landa di periferia. Immondizie, accampamenti, polvere siringhe, gabbiani che hanno sostituito i corvi nella caccia ai rifiuti. Gli argini dell’Adige, che erano stati fatti per proteggere i campi dalle ire del fiume ma ideati in maniera che servissero di passeggio, sono una sconsolante successione di rifiuti che la presenza dei cantieri comunali non riesce a lenire.

E’ di ieri sera il tempo di quando i vigili urbani segnavano sul rapportino quotidiano ogni cosa, per piccola essa fosse, che turbasse il buon governo della città. Così accadeva per la grondaia che spargeva acqua, per i marciapiedi lordati dagli escrementi dei cani, per il tombino otturato, per un qualsiasi pericolo per i pedoni, per la panchina rotta, per la segnaletica imprecisa, per la buca nell’asfalto.

Oggi la città è cresciuta a dismisura, il territorio è stato sconvolto. Non c’è né tempo né fantasia per siffatte garbate applicazioni che riguardano il rispetto della vita. Piedicastello è stata la vittima della città della quale sorvegliava il castelliere. Il primo assalto si ebbe con la deviazione dell’Adige ma il borgo mantenne la sua identità. Rinvigorì, anzi, la sua presenza artigianale e di servizio quale terminale della via bresciana. Poi venne il cementificio. La montagna fu aggredita; vi si aprirono ampie ferite; fu sfruttata fino all’esaurimento.

Dal fumo delle ciminiere la città pronosticava l’andare del tempo. Ma il fumo era anche polvere di cemento. Il colore dominante di Piedicastello divenne il grigio.

Nel novembre del 1963 il Municipio di Trento ordinò lo sgombero del rione perché sembrava minacciato da crolli dal Doss Trento.

——————> Fotografia tratta da “IMMAGINI DELLA MEMORIA” servizio Cultura Comune di Trento

Ph. Flavio Faganello

L’atmosfera da catastrofe del Vajont aveva creato emozioni e paure prima che fosse scordata. Torpedoni dell’Atesina, squadre motorizzate della SIT e camion dell’esercito eseguirono l’operazione. Centoventi famiglie per 335 persone furono fatte sfollare. Furono ospitate in alberghi e appartamenti requisiti. Piedicastello si svuotò. Divenne spettrale.

Concluse le operazioni di risanamento alle pareti rocciose del dosso, l’ordinanza fu revocata.

Era il 1965. La gente era tornata. Ma Piedicastello aveva subito un duro colpo. Quello che accadde dopo fu come una vivisezione di un tessuto che era comunità attiva con ambiente e cultura propri.

L’unità di Piedicastello è il retaggio dell’isolamento che per secoli gli hanno conferito l’Adige e il Doss Trento. Lo stesso mito della “Repubblica di Piedicastello” è la testimonianza di una certa organizzazione indipendente rispetto alla città.

Narrano che Garibaldi vi si sarebbe rifugiato sotto mentite spoglie, per studiare in loco una invasione del Trentino, e che vi ottenne calda ospitalità. La leggenda non è che la comprova indiretta dell’essere “paese” di Piedicastello.

Sollecitando i ricordi, i vecchi riscoprono le immagini delle cordiali sassaiole tra monelli di Piedicastello e quelli di “Katzenau” (così era detto il rione nuovo dei ferrovieri, perché assomigliava alla baraccopoli del campo di internamento sul Danubio, presso Linz), della Portela e di San Martino. Oppure le immagini della triade festosa per la sagra di S.Apollinare, che cade il 23 luglio, con le gare alla palla, le luminarie alla veneziana, l’albero della cuccagna ed i fuochi artificiali sparati dalle barche.

Dal canto suo la città dimenticò l’illustre origine di Piedicastello e la sua funzione. Lo considerò borgo fuori dalle mura civiche.

Il banditore del Principe vi si recava a leggere le grida più importanti; al tempo del Concilio tridentino vi furono confinati i “mendicanti paesani (…) provveduti del necessario a spese della città, aiutata con qualche elargizione del Cardinale di Trento”. Non per ciò il luogo mancava di attrazioni per i Trentini. Era meta di scampagnate e di passeggiate.

Gli stessi padri conciliari amavano cavalcare a S.Apollinare, oppure agli “edifici del rame”, sulla vecchia strada del buco di Vela. Soprattutto il cardinale Cervini, poi papa Marcello II, coltivava una certa predilezione per i distensivi, meditabondi fine settimana nell’antico convento benedettino di Piedicastello.

Quando sopraggiunse la terribile peste del 1630, la manzoniana, le porte della città furono sbarrate.

Il borgo ridivenne isola. Ecco allora, fuori le mura, al Campo della Badia, a un tiro di archibugio dalle case di Piedicastello, o nei pomeri a ridosso delle mura di Santa Margherita, lo stendersi dei lazzaretti: gli appestati avevano per ricovero una botte vuota, per assistenza un prete coraggioso e pochi monatti.

Su di un libro dell’archivio della canonica c’è una curiosa notazione: “Nell’anno 1819 furono qui sepolti 20 signori della città, nel 1820,21,nel 1821,23 nel 1832, 11”. Perché mai i “signori della città” si fecero seppellire nel cimitero di Piedicastello? Erano i tempi in cui la gente senza nomi illustri moriva per “febbre continua accompagnata da dissenteria”, per “febbre terzana”, per “febbre tisica”. (Archivio parrocchiale di Piedicastello – Libro dei morti).

Prima della costruzione della strada di circonvallazione c’era un angolo romantico che la prepotente presenza della fabbrica del cemento aveva risparmiato. Secolari pioppi cipressini pieni di passeri ciarlieri, si elevavano maestosi all’inizio dell’argine dell’Adige, a sinistra del nuovo ponte. Sotto all’argine, fra il verde, c’era una casetta dalle porte e dalle imposte sbarrate, dal cortiletto cinto da un reticolato. Una volta era il casino del bersaglio, teatro delle allegre quanto convinte gare dei Trentini e dei Pedecasteloti. Poi il fascismo lo adattò a Dopolavoro ed infine divenne scuola materna. Ai tempi del casino del bersaglio, sull’argine lastricato da larghe pietre rosse, le lavandaie sgobbavano da mane a sera.

Cantavano che era una bellezza starle a sentire, dicono. Oggi non si canta più né sul fiume, né nelle case, né nei campi. La tristezza dell’ambiente, la nevrosi del vivere e la petulanza ossessiva delle radioline hanno ucciso l’estrosità contaminatrice del buon umore. Presso l’argine era tesa una fitta rete di corde per stendervi la biancheria ad asciugare. Il sole, allora, non sapeva di polvere di cemento né di fumi di scarico. Il vento veniva giù dalla valle frizzante.

Nei giorni di piena o in quelli della morbida estiva, i Pedecasteloti affollavano i “tomi” per “tirar de rampin”: agganciavano abilmente la legna trascinata dalla corrente. La ponevano ad asciugare sugli argini e ciascuno sapeva quale ea la sua catasta. In pieno inverno un manipolo di audaci giovanotti si gettava nelle acque gelide del fiume per far a gara ad attraversarlo.

La deturpazione dei brevi spazi storici tra l’Adige e la montagna ha coinvolto in pieno la veneranda chiesa di S.Apollinare. E’ un eccelso monumento che nei rilievi e nelle epigrafi murate nelle lesene ci è testimonianza di sontuosi, importanti edifici della romanità imperiale.

Sulla facciata del tempio si intravedono le tracce di freschi trecenteschi di quando il luogo era tenuto dai Benedettini. Nel primo ventennio del trecento, costoro rifabbricarono la chiesa conferendole forme romanico – gotiche.

————————> Chiesa Sant’ Apollinare vista dalla bifora del salone San Benedetto Ph. Gianfranco Bernardinatti

Il convento sorgeva dove c’è l’attuale casa canonica. Intelligenti restauri eseguiti verso il 1962 riuscirono a rilevarne le tracce trecentesche nelle svelte bifore e nei resti di pitture a fresco degli sguanci. Si pensa che parte del chiostro benedettino poggiasse sulla facciata meridionale della chiesa. Lo possono attestare le lesene immutate, accanto alle due epigrafi romane quivi portate dalle lesene di settentrione. Singolare ed unico nelle chiese tridentine, è l’interno del tempio. E’ composto da due ambienti quadrangolari sormontati da altrettante cupole ottagone a costoloni. Le cupole sono esternamente celate dall’enorme tetto a due spioventi ripidissimi che conferiscono alla chiesa il noto aspetto fortemente caratteristico.

Varie leggende animano il luogo. Su vicino Doss Trento si cercò ripetutamente il tesoro custodito dagli spiriti. Una pastorella colta dal sonno trovò dinanzi a sé dei carboni ardenti che si trasformarono in lingotti d’argento. Meravigliata scese a rompicollo a Piedicastello.

———————-> Affresco della Madonna di Piedicastello

Ph. Gianfranco Bernardinatti

Quando tornò sul dosso in luogo dei carboni ardenti e dei lingotti d’argento, c’era una medaglietta sacra che le era caduta durante il sonno. La più diffusa leggenda è quella legata al dipinto della Madonna che il pugnale di un francese sacrilego avrebbe sfregiato. Si tratta del frammento di un affresco trecentesco staccato nel settecento da Bartolomeo Passi dalla facciata esterna ed incorniciato tra il marmo dell’altare laterale di sinistra. La guancia destra della Madonna porta la stimmata della sacrilega ferita dell’ignoto milite francese. Nedda Falzolgher raccontò la fiaba in una dolce lirica dialettale.

La mamma, inginocchiata con la sua bambina dinanzi all’immagine nel silenzio agreste del tempio,

“…piegando la so testa bionda
vizin a l’altra testa picenina
la ghe diceva: “Vardela, popina
vardela pur ‘sta Madona, poreta,
i l’ha ferida con’ na baionetta!
Gh’è vegnù fora ‘l sangue, dal bon;
l’è sta i soldati … cossa g’hat? Passion?
Te pianzi? Benedetta ‘sta creatura!
Daghe i to fiori, mandeghe ‘n basin …”
Risponde la faciota za bagnada:
“Mama, cossa disevel po’ l’Bambin?…”

Presso l’altare, tra l’altare e i banchi, ci sono nel muro i segni della venerazione popolare: la pietra dell’ “Elemosina, ad onore di Maria” la pietra dell’”Olio/ad onor di Maria/i divoti/1869”.