Dormono dormono sulla collina… Il Cimitero di Piedicastello

Dormono dormono sulla collina è il verso con cui inizia la celebre Antologia di Spoon River in cui nel 1915 il poeta americano Edgard Lee Masters metteva in versi le lapidi di un piccolo cimitero nell’Illinois, versi che nel 1971 Fabrizio de André rielaborò in una bellissima canzone.

Anche a Piedicastello c’è un piccolo cimitero simile a quello dell’Antologia di Spoon River, non è sulla collina ma ai piedi della collina del Dos Trento, davanti alla chiesa di S. Apollinare.

Un tempo all’ombra di romantici cipressi, il cimitero conserva ancora delle lapidi attraverso le quali si può leggere la storia della piccola comunità di Piedicastello.

Lavori imponenti, in questi ultimi anni, hanno sacrificato i cipressi e hanno riportato il sagrato dell’antica chiesa al livello originale con un’imponente campagna di scavi che ha restituito decine e decine d’inumati, fino ai primi strati medievali e la cui lettura da parte degli archelogi, sarà di grande giovamento per la storia

non solo di Piedicastello, ma anche di tutto il Trentino, insperata occasione che giustifica da sola i ritardi per la riapertura al culto della chiesa di S. Apollinare.

Le vecchie lapidi sono tuttora sul posto, testimonianze d’arte e di storia che vanno ricollocate, tutte, dov’erano e com’erano, così suggestive che pittori e disegnatori hanno riprodotto il cimitero in dipinti, stampe e cartoline d’epoca.

Il cimitero non è solo il luogo di rappresentazione del lutto, ma anche museo e archivio disponibile a tutti, dove si possono leggere i segni degli atteggiamenti collettivi di fronte alla morte e le genealogie famigliari, veri e propri documenti storici, soprattutto per le piccole comunità, com’era quella di Piedicastello.

E’ importante quindi la conservazione delle lapidi, quali documenti storici e artistici, cosa che ha capito l’Intendenza ai Beni Culturali del Tirolo che ha allestito un deposito di croci tombali.

Gli scavi hanno dimostrato l’antichità del cimitero annesso a S. Apollinare, non solo dell’attuale chiesa, che risale al 1319, ma anche delle precedenti, quelle del V secolo (forse eretta dai goti di culto ariano) e quella del XIII secolo, il cui perimetro occupava tutta la lunghezza dell’attuale cimitero, finendo giusto giusto al muro di cinta.

Le tombe, decine e decine, erano, come sempre, all’esterno della chiesa, i defunti erano depositati in umili fosse e avevano un corredo ridottissimo, prova delle modeste condizioni economiche della popolazione del sobborgo sulle rive dell’Adige, composta di contadini, piccoli artigiani, barcaioli, carrettieri, facchini…

I primi accenni al cimitero di S. Apollinare li abbiamo negli Atti visitali del 1549, quando i delegati vescovili ordinano che si faccia un cancello all’ingresso per impedirne l’accesso agli animali, gli Atti visitali del 1749 ci descrivono invece un camposanto coperto di erbacce e circondato da vigne, con il muro di cinta che cade a pezzi.

La litografia di Basilio Armani raffigura il cimitero com’era negli anni cinquanta dell’Ottocento, uno spazio erboso davanti alla chiesa con le tombe segnate da semplici croci di legno e qualche lapide apposta sul muro di cinta.

Ad eccezione del magnifico sarcofago degli abati, rialzato sotto la nicchia posta davanti alla chiesa, insigne testimonianza della scultura medievale, le altre tombe datano dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del secolo scorso. Quasi tutte addossate al muro di recinzione o alle pareti della vecchia sacrestia, le lapidi sono in pietra bianca trentina, poche in arenaria o in marmo rosso, ancora meno quelle con pietre più rare, come quella in marmo nero di Ragoli del medico Largajolli.

Alcune lastre sono di persone estranee al sobborgo, morte a Piedicastello, o che per qualche ragione, forse la poesia del sito e della chiesa, hanno scelto di farvisi seppellire, come il giudice Pegoretti, il conte von Clam e la contessa Tavonati, titolari di lapidi elaborate, altre invece si riferiscono a personaggi i cui discendenti abitano ancora nel sobborgo, come la grande lapide sormontata da una conchiglia di Luigi Benedetti, gestore di un’osteria, “che sua vita mite e benefica santamente coronò a Piedicastello ai 29 aprile 1900”. Anche gli Egenter risiedevano a Piedicastello e la tomba di Giuseppe, avvocato, morto nel 1943, ha particolare valore storico, perché il cimitero di Piedicastello era da tempo dismesso, ma, essendo crollato il ponte di San Lorenzo a causa dei bombardamenti, si fece un’eccezione, perché la salma era difficilmente trasportabile sul traghetto che sostituì il ponte fino al 1948.

Quasi ogni lapide ha incisa una frase, spesso di repertorio, ma, talvolta, anche mossa da accenti personali di commozione, che ci restituiscono il rapporto d’affetto da parte dei famigliari e del loro rimpianto.

Ne sono esempi la bella lapide in pietra bianca, dalle forme ancora barocche, di Lorenzo Piffer, morto nel 1817, “padre ottimo e amatissimo”, che le figlie “afflittissime per eternar il loro dolore gemendo innalzarono”, oppure l’elegante lastra neogotica di Giuseppe Visintainer, morto nel 1889 “nella bella età d’anni 79 lasciando ai figli buona eredità d’affetti e di virtù” e, ancora, la tomba di Stefano Stenico, detto Ognibene, in pietra bianca con timpano ornato da due volute e dalla croce, sulla quale moglie e figli vollero fosse incisa una vera e propria poesia dai toni ingenui e toccanti: “Un requie sol /un sol pensier d’affetto / dona a quest’alma / o passaggier diletto / se per gli estinti / nutri amor verace / io pur dal ciel / t’impetrerò la pace”.

Anche Bortolo Demozzi e la moglie furono “esempio continuo d’ogni virtù” per i figli, che inviano loro l’estremo saluto facendo incidere sulla tomba a forma di libro aperto la frase “Anime desideratissime / A rivederci in cielo”. Quanto a Giovanni Merz, deceduto nel 1896, i parenti gli auspicano affettuosamente “pace etterna”, mentre a Luigi Trentinalia, morto nel 1898, i congiunti augurano: “ti sia care le preci nostre / che desolate davanti alla tua tomba / innalziamo / memori degli esempi / di virtù / che ci lasciasti”.

Triste sorte quella delle sorelle Maria e Francesca Andreazza, l’una “rapita da crudo morbo / come candida colomba / d’anni 19”, l’altra morta nel 1894, a 25 anni, “lasciando un pargoletto che dopo sette mesi la raggiunse in cielo”, testimonianza dell’alta mortalità infantile dell’epoca, come si desume dalle tombe di bambini tuttora nel cimitero.

Altre tombe rivelano particolari curiosi, come quella in pietra bianca di Lodovico Fracalos, di Trento, che reca scolpita una croce patente iscritta in un cerchio, la stessa croce dei templari, mentre la targa dedicata a Brigida Marinelli dai figli Mosè, Ezechiele e Rachele testimonia della diffusione dei nomi di origine ebraica anche in una Trento segnata dal culto antisemita di Simonino.

Sul muro della costruzione settecentesca posta davanti alla chiesa sono murate le lapidi più elaborate. Le due lapidi gemelle di gusto neoclassico, con l’urna coperta dal drappo funebre, sono dedicate ad Andrea Pegoretti, consigliere nel giudizio provinciale di Trento, morto a trentasette anni nel 1820, l’altra al conte Christoph von Clam, funzionario dell’Imperial Regio Governo e “wahrerer Edler seines Landes” (sincero servitore della sua terra). Accanto a queste i cenotafi delle sorelle Eleonora e Giuseppina “due fiori gentili ahi recisi su gemino stelo”.

E infine la tomba più importante dal punto di vista artistico, quella di Giacomo Micheli, morto nel 1848 a soli 24 anni, all’inizio di una carriera di promettente pittore, del quale rimangono un Sacra Famiglia, copia da Raffaello, nella canonica di S. Apollinare e due romantici paesaggi conservati al Buonconsiglio, dov’è anche il suo autoritratto, che ce lo mostra giovane, bello e biondo.

Il suo monumento funebre in stile neorinascimentale, incassato nel muro della vecchia sacristia, ha la forma di un sarcofago poggiante su mensole fogliate, reca sul davanti una targa con sottili nastri attorti con l’iscrizione funebre che lo ricorda come “giovane di squisito sentimento allievo non comune nelle accademie di Venezia e di Milano” e del quale “ la modestia e la docilità dell’animo sopprimevano la coscienza del merito”. Il sarcofago è sormontato da un timpano con scolpita una tavolozza da pittore cinta da corona d’alloro e, sopra, una bilancia, simbolo del

giudizio finale e attributo di san Giacomo, omonimo del defunto.

Il monumento funebre, come rivela la firma, è opera di Stefano Varner, all’epoca uno dei più valenti scultori di Trento, autore di altri monumenti funebri, dell’altare della chiesa di Mezzolombardo e di quello della chiesa del Sacro Cuore a Trento, dono del vescovo Giovanni Nepomuceno de Tschiderer.

Nel 1859 Varner fu incaricato anche di realizzare il nuovo portale della chiesa di S. Apollinare al posto di quello settecentesco, progetto non realizzato perché la rimozione del portale barocco mise in luce il sottostante portale romanico, quello visibile attualmente, che si credeva perduto.

Dormono tutti sotto la collina i morti di Piedicastello, nel romantico cimitero che, speriamo, una volta terminati i lavori, ritorni a essere quel luogo di pace e di riflessione amato da tutti.

William Belli
Piedicastello, luglio 2011